#Teatroaporteaperte (nuovo comunicato del 15/03/2020): streaming domiciliari per scenarizzare l’emergenza
Il 6 marzo, seguendo la raccomandazione ministeriale di promuovere attività alternative rispetto a quelle interdette, avevamo proposto di organizzare piccoli spettacoli domiciliari e training autogestiti all’aperto nel rispetto delle norme vigenti. Non ci aspettavamo che in soli 4 giorni si emanassero 3 Dpcm che proibissero progressivamente ogni forma di socialità. Perciò, nel rispetto della nuova normativa, abbiamo cambiato responsabilmente rotta. Il nostro orientamento però rimane lo stesso: battiamo i denti ma non chiudiamo i battenti. Non potendo aprire le porte fisiche, apriamo quelle ethernet (un altro modo per intendere #teatroaPorteaperte) perché crediamo nel potere taumaturgico del condividere e fare cultura, a maggior ragione quando si vive in regime di isolamento. Certo, «Il teatro senza pubblico» – direbbe Grotowski – «nun se po’ sentì!». La nostra non è una proposta risolutiva, ma una soluzione lenitiva per attivare forme di resistenza alla gestione emergenziale della pandemia.
Sì, perché dopo gli appelli condivisi a stron battuto sulla necessità di «starsene a casa» senza sé e senza ma come «responsabilità individuale» di ogni cittadino, sta guadagnando lentamente strada il concetto old-school, ma ben più solidale, di «resistenza». Come scrivevamo il 6 marzo, la retorica dell’auto-isolamento asservito alla norma di stato non ci convinceva e infatti non ha retto. Non ha retto sui social, scatenando aggressività, fake news, delazioni, invocazioni all’autoritarismo e ipocrisie, prima fra tutti quella dei vip dai conti in banca milionari, che diffondevano l’hashtag #iostoacasa dallo sfarzo delle loro ville fuori città. E infatti non ha retto chi è tornato a casa per paura di passare la quarantena isolato dalla famiglia o in cinque sotto a un gabinetto. Non hanno retto i carcerati e carcerieri, isolati ma accalcati senza tutele sanitarie. Non hanno retto i lavoratori e lavoratrici che avrebbero voluto stare a casa ma la legge imponeva loro di non farlo: pendolari ammassati su carri bestiame ferroviari e operai stretti fra le maglie della catena di montaggio, ma anche fattorini, riders e magazzinieri che per «necessità imposta» continuavano a servire colossi come Amazon o Just Eat per garantirsi almeno un piatto di lenticchie. Non ha retto il governo (che prima chiude le scuole poi i centri anziani, prima i teatri poi i risto-pub), governatori e sindaci (che, come De Luca in Campania, minacciano di «neutralizzare» chi passeggia e , come a Bari, chiudono i parchi con fare sceriffesco) e di conseguenza non hanno retto e non reggeranno le forze dell’ordine (che si trovano a maneggiare con sempre maggior autoritarismo istruzioni terminologicamente e giuridicamente contradditorie, e a discrezione personale multano i piccoli commercianti per vendita di articoli proibiti, ma non i supermercati zeppi di merci inutili). E non abbiamo retto noi, che già vivevamo isolati nelle baraccopoli e in alloggi di fortuna, nelle case famiglia o nelle famiglie incasinate, nei seminterrati e nei casermoni popolari senza Netflix e wi-fi, e che in casa – altro che vacanza! – giorno dopo giorno ci scopriamo rinchiusi in un dedalo di oppressione fisica e mentale.
Occorre resistere alla pandemia, ma soprattutto resistere all’emergenza costruita sul pericolo della pandemia. Un pericolo reale, ma che si è corazzato di realismo politico. Perché disporsi in attesa non si traduca in attendere le disposizioni. Perché l’ingiunzione a restare, non diventi ansia da stazionamento. Essere vigili, non vigilantés, in uno stato d’emergenza che sta velocemente (e incongruentemente) sospendendo e riconfigurando diritti ritenuti inviolabili e potrebbe farlo ancora, e meglio. Resistiamo all’epidemia (stando a casa a leggere, disegnare, guardare film e chattando con amici e parenti) ma resistiamo all’emergenzialità esercitando il nostro diritto di lotta e critica al potere, affinché il conto di questa emergenza non lo paghino solo i morti ma anche i sopravvissuti del piano terra della scala sociale. Per farlo non c’è una ricetta: ognuno può farlo a modo suo, noi lo facciamo col teatro.
«I’m a fuckin dreamer, man… but i’m not the only one».
Garofoli/Nexus,
Roma, 15/03/2020
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Vecchio comunicato del 06/03/2020 (non più valido nelle proposte ma attuale nelle considerazioni politiche)
Teatro a porte aperte:
training autogestiti e spettacoli domiciliari per scenarizzare l’emergenza.
Stop ai laboratori scolastici e al centro diurno. Cancellato il debutto del nuovo spettacolo al Teatro di Roma e stand-by anche per la rassegna no-profit che organizziamo al centro sociale. Insieme a centinaia di altre compagnie e imprese culturali operanti in Italia, la nostra prospettiva di lavoro è stata azzerata almeno fino al 3 aprile (ma «con possibilità di proroga»!). Le misure preventive disposte dallo Stato per fronteggiare l’epidemia del nuovo Covid-19 parlano chiaro:
- b) sono sospese le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportano affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro di cui all’allegato 1, lettera d);
L’applicazione di queste e altre misure preventive ha reso di fatto insostenibile la prosecuzione della stragrande maggioranza delle attività teatrali, facendo calare la mannaia sulle già precarie sorti di tournée, laboratori ed eventi in vista dei quali piccole imprese culturali come la nostra dedicano mesi (se non anni) di preparazione. L’annosa questione del lavoro culturale è perciò balzata nuovamente all’attenzione pubblica.
C’era bisogno di un’ulteriore “strappo” emergenziale per denunciare con forza la carenza di tutele e diritti per i lavoratori delle scene? Che il discorso politico sulla cultura è in stallo da decenni, incastrato in un equivoco braccio di ferro fra conservazione dei beni culturali e produzione artistica? Che i soldi del Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) sono ripartiti fra le solite compagnie a gestione aziendale che per assicurarsi un ammontare minimo di date appaltano repliche alle giovani compagnie indipendenti? Che le suddette compagnie indipendenti (volgarmente definite “off”) così facendo risparmiano sulle tasse ma non maturano curriculum, appoggiandosi a piccoli teatri, associazioni culturali e spazi sociali che lottano quotidianamente per garantire un’offerta popolare e di qualità contro gli incoerenti regimi fiscali imposti da ministero, inps e siae? Che molti di questi spazi indipendenti aprono le serrande anche ai grandi nomi che animano festival e stagioni istituzionali, che nonostante il successo hanno bisogno di spazi alternativi alle logiche del profitto per costruire un prodotto finito? No, certo che non c’era bisogno. Come non ci sarebbe il bisogno di lanciare un ovvio parallelismo con le condizioni di lavoro a rischio burnout di insegnanti e operatori sociali, col perpetuo regime di straordinario imposto a partite iva e lavoratori “fuori busta”, o quello di ricattabilità e asservimento imposto a docenti e ricercatori non-strutturati, con le condizioni di scarsa sicurezza imposte ai dipendenti pubblici (medici e infermieri ora più di altri) e più in generale con tutte quelle risorse umane assoggettate da un perpetuo regime di precarizzazione e marketizzazione delle relazioni sociali e professionali. O forse sì.
Di fronte a questo scenario, nella nostra comunità si sono profilati due atteggiamenti politici: ed entrambi non ci allettano. Uno è quello della rivendicazione corporativa che invoca una giustizia generalizzata per gli afferenti al settore dello spettacolo colpito dalle misure restrittive. Una lotta dalle finalità giuste, ma dalle motivazioni patologiche. Compattare forzatamente una soggettività altamente eterogenea e nebulosa senza aver aperto un fronte quotidiano di lotta e confronto collettivi è, nove volte su dieci, una reazione da complesso di inferiorità corporativa («siamo anche noi una categoria!») sfociante in antipatici battibecchi fra pari in salsa reazionaria («e perché voi dovreste essere tutelati e noi no?»). L’altro approccio, uguale e contrario, è quello dell’auto-isolamento “ragionato”. Poiché le misure restrittive sono ragionevolmente pensate per debellare l’emergenza e poiché, come insegna una nota marca di dentifricio, «prevenire è meglio che curare», sarà bene smettere di frignare e, come fan tutti, attenersi alle regole e aspettare, aspettare e aspettare (a un metro di distanza uno dall’altro, possibilmente). Anche questo approccio cautelativo al fare teatro è poco allettante: primo, perché promuove un asservimento incondizionato alla normativa di stato; secondo, perché in fondo rilancia il messaggio di tremontiana memoria secondo cui, di fronte alla crisi, «con la cultura non si vive». Ecco a noi entrambi gli approcci non convincono, ma non per questo eviteremo di sostenere forme virtuose di rivendicazione dal basso dei diritti dei lavoratori, né invocheremo un sabotaggio tout court delle norme di prevenzione indicate dal governo. Come voi, battiamo i denti, ma non per questo chiudiamo i battenti.
Non abbiamo nessuna cura, tantomeno una formula magica per risollevare le sorti bio-culturali del nostro paese. Ma possiamo ancora scegliere e lo facciamo. Ogni crisi, lo indica la parola stessa (dal greco krino, “separare”, “discernere”), si supera compiendo una scelta. E noi scegliamo una terza via. Non per un culto narcisistico del lavoro o per svoltare un piatto di lenticchie in tempi di magra, ma perché crediamo nella funzione taumaturgica (cioè lenitiva, analgesica e decongestionante) del teatro. Potremmo elencare decine di prinicpi attivi del fare teatro ma ci limitiamo a due: il principio intersoggettivo, ovvero che la situazione teatrale favorisce il rispecchiamento empatico in presenza dell’altro e con l’altro; e il principio scenarizzante, cioè la capacità di reinventare collettivamente e dare senso all’ambiente circostante grazie all’antico meccanismo della scena. Immaginare, empatizzare, riflettere: il teatro come spazio di condivisione è quel rito-misto-a-gioco che serve a mantenere il contatto critico col mondo. Umsicht, come scriveva Martin Heidegger, “visione ambientale preveggente”.
Detto ciò, non vogliamo dettare una linea ma proporre esperienze reperibili, replicabili e modellabili secondo il contesto. La prima che vi segnaliamo è dedicata ad attori/trci, danzatori/trici e performer che non vogliono battere la fiacca. Si chiama Ctrl+P ed è un gruppo di training autogestito che si incontra a Roma e continuerà a farlo ogni giovedì mattina dalle 10.30 alle 12.30 presso Spin Time. Ctrl+P non è un laboratorio di ricerca in senso stretto, ma uno spazio pensato per mantenere in forma le abilità fisiche, tecniche e drammaturgiche di un artista dello spettacolo che, magari a causa di un decreto ministeriale, è impossibilitato a svolgere il proprio mestiere ma vuole tenersi pronto per il ritorno in scena. Gli incontri sono composti da un momento di riscaldamento e workout, seguito da due esercizi collettivi programmati e condotti in maniera orizzontale. Quella del training autogestito ci sembra un’iniziativa da potenziare e replicare in tutte quelle comunità di artisti che, mentre stringono la cinghia, non vogliano rinunciare anche al «lavoro dell’attore su sé stesso», per dirla con Stanislavskij. Dato che gli incontri sono limitati a un massimo di 15 partecipanti, non escludiamo che oltre al giovedì, si possano aggiungersene altri momenti di allenamento all’aperto in parchi e spazi pubblici. Allenarsi a porte aperte è come lanciare un razzo di segnalazione: s.o.s, abbiamo urgenza di ballare, danzare, recitare, agire e divenire. E perché no: «Guardare quest* qui che si allenano è proprio un bello spettacolo!».
Sempre in tema di “apertura”, la seconda iniziativa che vogliamo segnalare (e vi invitiamo a replicare) si intitola “Teatro a porte aperte”. Si tratta di organizzare performance dal vivo in spazi domiciliari in linea col decreto ministeriale che recita:
e) è raccomandato ai comuni e agli altri enti territoriali, nonché alle associazioni culturali e sportive, di offrire attività ricreative individuali alternative a quelle collettive interdette dal presente decreto, che promuovano e favoriscano le attività svolte all’aperto, purché svolte senza creare assembramenti di persone ovvero svolte presso il domicilio degli interessati;
Ebbene sì: it’s the law! «Senza creare assembramenti di persone», invitiamo artisti e compagnie a organizzare spettacoli, reading, concerti, performance d’arte e altre forme di spettacolo dal vivo in presenza di un piccolo pubblico all’interno di abitazioni o spazi domiciliari di amici e conoscenti e, facoltativamente, di trasmetterle in streaming video con l’hashtag #teatroaporteaperte. Non chiedete biglietti, né prenotazioni on-line. L’obiettivo non è creare un evento campale, ma una guerriglia di episodi teatrali. Se l’happening sarà per pochi intimi, lo streaming servirà a includere tutti gli altri. Per ridurre le distanze e raccontarsi a distanza. Per interrompere la serialità, e innescare concatenamenti – come direbbero i filosofi. Noi iniziamo aprendo le porte di casa nostra, ma siamo aperti anche agli inviti.
Certo: nulla di nuovo sotto al sole. Battiamo una strada già inaugurata in tempi di crisi ordinaria con gli esperimenti di teatro a domicilio come quello della compagnia indipendente Teatrofattoincasa o a vere e proprie reti di teatri con angolo cottura come Teatroxcasa. Ma pensiamo anche a performance casalinghe come il Kitchen Show della britannica Bobby Baker e, per tornare da noi, alle occupazioni “habitative” del duo Antonio Rezza e Flavia Mastrella nel format La tegola e il caso in onda su Rai 2. Inoltre, proprio negli ultimi giorni, tanti amici e amiche teatranti del Nord Italia hanno aderito all’iniziativa #lospettacolononsiferma (promossa da Stivalaccio Teatro) che consiste nel condividere online un minuto di performance: per non affrontare da soli questo periodo di vacanze forzate. Ricordiamo poi l’iniziativa (contraria nei modi, ma allineata negli scopi) del “Teatro a porte chiuse” promossa da Teatro Studio Uno, una piccola roccaforte culturale nel cuore di Tor Pignattara che continuerà la programmazione “a porte chiuse”, trasmettendo gratuitamente i suoi spettacoli e invitando a sostenere le compagnie tramite l’acquisto di biglietti virtuali.
Ci auguriamo che queste e altre iniziative si moltiplichino, innescando un rapporto vivace e virtuoso fra artisti, pubblico e territori, rilanciando il potere taumaturgico del fare teatro e perché no, ponendo le basi per un percorso politico comune che non si esaurisca all’estinguersi dell’emergenza.
Garofoli/Nexus
Roma, 06/03/2020